Arturo Bernava è nato a Chieti nel 1970 e vive con la famiglia a Roseto degli Abruzzi (Teramo), dove lavora come direttore di banca. Di recente ha pubblicato “Il colore del caffè” (Solfanelli, pp. 192, Euro 12), un romanzo ambientato in Abruzzo durante il “ventennio” fascista, tra l’ombra delle leggi razziali e il sorgere d’un sentimento che lega il Maresciallo dei Carabinieri Dante Modiano a una donna di nome Lorena. Ma oltre a questo, la storia racconta molto altro. Ne abbiamo parlato con Bernava, partendo dalla sua vita di lettore per arrivare ai personaggi che popolano le sue pagine.
Ci racconti di lei e del suo approccio al mondo della scrittura.
“Ho sempre pensato che scrivere sia fantastico perché permette di dare corpo alla fantasia. E siccome la fantasia è fantastica per definizione, lo scrivere mi affascina perché dà la possibilità di creare dei mondi “alternativi” che però, per fortuna, nulla hanno a che vedere con la cosiddetta “realtà virtuale” molto – troppo – di moda in questi tempi. Ecco… quando ho scoperto tutto questo, ho capito che scrivere poteva essere per me il veicolo per dare corpo alla tanta “vita” che non riuscivo ad esprimere concretamente, e che restava compressa nei meandri della mia mente; avrei anche potuto dire “del mio cuore” o “della mia anima”. È stato però un percorso lungo, non frutto di una improvvisa illuminazione. L’approccio alla scrittura è avvenuto per gradi”.
La domanda è allora d’obbligo: quando e perché ha iniziato a scrivere?
“Comincio dal perché. Credo che la mia voglia di scrivere nasca dalla enorme passione per la lettura. Ho sempre adorato leggere, sin da bambino. E più leggevo più riuscivo a concretizzare per iscritto i miei pensieri; ma inizialmente e per lungo tempo questo è accaduto solo in ambito lavorativo. Come narra la mia biografia ho vinto il primo concorso letterario a dodici anni, ma è stato un caso sporadico. Ho ripreso a scrivere – in senso letterario – solo nel 2003 e per lungo tempo ciò che scrivevo è rimasto nei cassetti perché lo ritenevo lontanissimo da ciò che invece leggevo e adoravo. Nel 2004 scrissi un racconto breve che vinse un premio letterario, ma anche in quel caso non sono riuscito ad avere continuità. Se dovessi indicare un periodo esatto in cui ho iniziato a scrivere “seriamente” direi senza dubbio nel 2007, un anno molto difficile per me a livello personale, ma – come spesso accade in questi casi – pieno di cose da raccontare”.
In termini umani, cosa significa per lei scrivere?
“Dare voce ad una parte di me che a sua volta vuol dare voce a chi non ne ha. Non è idealismo o retorica, semplicemente una constatazione. Nei miei scritti, spesso, cerco di convogliare quelle sensazioni e quelle emozioni che “rubo” in giro. Io non scrivo quasi mai di fatti autobiografici, ma sempre di storie prese in prestito. Credo che il miglior modo per ringraziare chi mi presta le proprie storie, le proprie parole, sia fare da cassa di risonanza alle loro esigenze. E siccome io scrivo spesso di “deboli”, questo rendere – anche solo per poco – i deboli un po’ più forti mi gratifica molto”.
Quali sono i suoi libri del cuore?
“Qui rischio di essere banale, ma ai libri del cuore non si comanda. “Il manuale del Guerriero della Luce” di Coelho, ed è un peccato che Coelho si sia sottomesso al “mercato”, “Il piccolo Principe”, “I ragazzi della Via Paal”, che è stato il primo libro che ho letto in vita mia, “Don Camillo” di Guareschi ed “Il Signore degli anelli” di Tolkien. Forse non sono granché al livello culturale, ma come dicevo prima, al cuor non si comanda”.
Cosa le piace e cosa non le piace della narrativa italiana di oggi?
“Mi piace il ritorno alla scrittura “vera”, fatta di punteggiatura e di pensieri scritti in italiano. Negli anni passati si è assistito ad un tipo di scrittura che riproduceva in maniera troppo puntuale la lingua parlata. Alcuni autori l’hanno saputo fare benissimo – penso ad esempio ad Enrico Brizzi ed al suo primo romanzo – altri davano l’impressione di non conoscere nemmeno l’italiano. E questo è rimasto un punto molto debole della narrativa italiana. Credo che una parte della colpa sia degli editori, troppo attenti al mercato e meno ai contenuti. La prova di quanto appena detto – ampliando il discorso dalla narrativa ai libri in generale – sta nella presenza in libreria di sempre meno scrittori professionisti a beneficio di tanti autori che però scrittori non sono: calciatori, cantanti, psicologi, presentatori, politici, comici, re e regine. Tutti a scrivere libri. Ma la qualità?”.
Torniamo a lei. Quale ritiene sia l’aspetto più complesso della scrittura narrativa?
“Io ho sempre difficoltà nel trovare “la storia”. Ritengo sempre che le storie che mi passano per la mente siano banali. In realtà non è sempre così; leggendo alcuni libri mi accorgo che spesso molte storie banali “reggono” bene, forse proprio grazie alla capacità dell’autore di narrarle in maniera avvincente. Ma ogni volta che mi trovo dinanzi ad un qualcosa di nuovo da raccontare mi chiedo: “Non sarà banale? Davvero interessa a qualcuno?”. Poi mi dico che dovrei concentrarmi più sul modo di raccontare che non sul contenuto. Ma so bene che se c’è una bella storia da raccontare, il modo di scriverla viene fuori quasi automaticamente. Sembra che la storia stessa sappia come farsi narrare. Una bella storia riesce a catturare l’attenzione del lettore e gli dà la possibilità di “vivere” il testo narrativo”.
Com’è nata in lei l’idea di raccontare quel che ha raccontato nel romanzo “Il colore del caffè”?
“Il libro nasce fondamentalmente da un racconto, che aveva lo stesso titolo, “Il colore del caffè”. L’avevo scritto per trattare l’ignominia delle leggi razziali, promulgate appunto nel 1938. Il racconto uscì così bene che vinse alcuni concorsi per “inediti”; in uno di questi, a Pescocostanzo, la numerosa giuria popolare rimase addirittura entusiasta dell’ambientazione e dei personaggi. Sono stati questi giurati, indirettamente, a convincermi a continuare la storia del maresciallo Modiano e della piccola comunità del paesino abruzzese. Per scrivere il romanzo, però, non bastavano le poche nozioni che avevo utilizzato per il racconto breve; così, oltre al ricordo degli anziani, è stato necessario un lavoro di documentazione molto attento e scrupoloso, che mi ha appassionato molto”.
Quanto tempo ha impiegato per scriverlo?
“L’editore, nel luglio del 2008, mi chiese una raccolta di racconti da pubblicare, visto che era da diverso tempo che non ne pubblicava una. Credo si fosse rivolto a me avendo saputo dei numerosi premi letterari che avevo vinto. Io non ero entusiasta, perché per il mio primo libro preferivo un romanzo e non una raccolta di racconti. Tuttavia mi misi al lavoro, riprendendo dei miei racconti già premiati e riadattandoli all’ambientazione storica e ai personaggi de “Il colore del caffè”. Ma ovviamente – vista la genesi – la prima stesura non piacque né a me né all’editore. Per cui accantonai la raccolta di racconti e nacque il romanzo così com’è stato pubblicato. Tutto questo processo credo sia durato quasi un anno, ma come detto in esso entrarono degli scritti prodotti anche nel 2007 ed uno – quello di Alfredo- persino nel 2004”.
Come mai una collocazione storica tanto precisa?
“Per diversi motivi. Intanto, come detto, volevo parlare delle leggi razziali. Poi volevo anche un periodo poco “utilizzato” dai narratori contemporanei. Ho letto molti romanzi ambientati nella seconda guerra mondiale o negli anni ’50 e ’60, pochi nel “ventennio” e quei pochi che ho letto mi hanno appassionato talmente tanto che mi hanno spinto ad ambientarvi la mia storia”.
Ha lavorato anche molto sui personaggi, a cominciare da Dante e Lorena.
“Dante Modiano è un maresciallo dei carabinieri giovane e idealista. Spesso le due cose vanno di pari passo e di pari passo si dividono. Ho voluto tratteggiare una persona che non fosse un eroe – per quanto idealista – ma anzi che lasciasse trasparire anche i propri punti deboli. Si troverà a dover fare i conti con la propria coscienza, quando verrà posto di fronte alla scelta tra il fare il proprio dovere o far prevalere l’aspetto umano della vicenda. E le sue scelte, secondo me, sono proprio il punto di svolta del libro. Così come le scelte di Lorena Venti, giovane vedova che si innamora – forse – di Modiano. Lorena ha una personalità persino più complessa di quella del maresciallo. Apparentemente non acculturata, conosce bene la vita, malgrado sia cresciuta in un ambiente “chiuso”. Lorena è molto più concreta di Modiano e molto più di lui riesce a guardare lontano. Forse perché – come gli ha insegnato Alfredo, altro protagonista del romanzo – usa gli occhi del cuore e non quelli della mente”.
Altro aspetto del suo romanzo è l’ambientazione abruzzese. Come mai questa scelta?
“Quando prima abbiamo parlato dei libri del cuore non ho indicato nemmeno un libro del mio scrittore preferito, Camilleri. Non l’ho fatto perché a me piacciono tutti – o quasi – i suoi libri, sebbene anche lui ultimamente si sia un po’ lasciato prendere dal “mercato”. Una cosa che mi ha colpito sempre di Camilleri è stata la sua capacità di far conoscere al resto d’Italia – e del mondo- la sua Sicilia e soprattutto l’amore che lui ha per la sua terra. Ecco, io in piccolo, molto più in piccolo, ho voluto fare come Camilleri. Cercare di trasmettere a chi mi leggerà il mio amore per l’Abruzzo. Ultimamente la nostra terra è balzata agli onori della cronaca per i noti fatti legati al terremoto del 6 aprile. Ebbene con il mio libro – che peraltro ho finito di scrivere e gennaio del 2009 – vorrei dire che non dobbiamo dimenticare ciò che è accaduto il 6 aprile e tutti insieme dobbiamo impegnarci per ricucire le ferite. Ma l’Abruzzo è molto di più del terremoto. Lo era prima e lo sarà anche dopo”.
Cosa significa per lei raccontare una storia?
“Come dicevo prima, le storie che prendo in prestito mi danno la possibilità di dare voce a chi forse non ne ha, ma soprattutto di tirar fuori da me stesso una parte che nemmeno io conosco. È vero, non scrivo storie autobiografiche, però credo di mettere molto di me nelle storie che scrivo e per quanto cerchi di “nascondermi” bene, non sempre ci riesco. Raccontare una storia mi aiuta a capire meglio cosa ne penso della storia stessa e spesso sono io il primo ad essere sorpreso di ciò che scrivo. O, è capitato spesso, a commuovermi o a ridere a seconda della storia che racconto. In definitiva per me raccontare una storia significa viverla in prima persona, anche se non è sempre facile e soprattutto non sempre ci si riesce. Quando però accade, quando cioè riesci a vivere davvero le emozioni che stai scrivendo, allora capisci che chi leggerà quel testo riuscirà ad emozionarsi più facilmente. È da come “vivo” la storia scrivendola che capisco come la vivrà chi mi andrà a leggere”.
Cosa ha significato, invece, raccontare “questa” storia?
“Scrivere “Il colore del caffè” è stata la risultante di un lavoro molto complesso, ma anche variegato. La genesi stessa del romanzo – parlavo prima della raccolta di diversi racconti – mi ha dato la possibilità di convogliare nel libro buona parte – forse la migliore – della mia produzione letteraria degli ultimi anni. Raccontare questa storia, quindi, è stata una sorta di verifica di quanto avevo fatto sin qui. Una verifica che aveva già subito severe valutazioni – con i premi letterari – ma che ha trovato elementi di novità forti; un conto è scrivere un racconto, tutt’altra cosa un romanzo. È stata una prova, una sfida. E già essere arrivato in libreria è stato un risultato per lungo tempo insperato”.
Dia ai nostri lettori un motivo per leggere il suo romanzo.
“Ho sempre pensato che “chi si loda si imbroda.” Per cui non posso essere io a parlare bene del mio romanzo. Le riporto due sms che mi sono giunti da altrettanti lettori. Ecco il primo: “Che peccato, è finito Modiano. Finisce con un bell’inizio, come dovrebbe essere ogni storia. Per permettere all’autore, se vuole, di voltare pagina e raccontare ancora. Ma soprattutto per permettere al lettore di costruire poi la sua storia. Quella che vorrebbe dopo aver voltato pagina. Ecco un libro buono che si misura dal sapore che lascia in bocca. Come un buon caffè”.E questo è il secondo:“L’ho appena finito. Grazie, grazie, grazie e ancora grazie. Resterà a lungo nel cuore e vorrò rileggerne diverse pagine per meditarle a fondo o solo per vivere di nuovo la loro poesia”. Giuro che non li ho pagati, anzi… il libro l’hanno persino comprato”.
Come ha scelto il titolo del libro?
“Avevo già scritto un racconto anni fa dal titolo “Il colore della voce” e, come detto prima, un racconto dallo stesso titolo del libro, “Il colore del caffè”. Un protagonista “occulto” del romanzo è il cieco Alfredo. L’uomo non vede con gli occhi, bensì con gli altri sensi e più in particolare con gli occhi del cuore. È lui a percepire i colori della voce, delle stagioni, delle persone stesse. E anche del caffè. Il caffè, quindi, diventa metafora di vita e si trasforma in qualcosa di diverso; non liquido nero, ma caleidoscopio di tanti colori per chi sa guardare oltre. È anche un elemento aggregante, un po’ come lo è nella nostra vita di tutti i giorni. Un elemento che in quel periodo storico era anche prezioso, vista la sua scarsità a seguito delle sanzioni imposte dalla “Società delle nazioni”. Ho voluto, quindi, rendere omaggio ad una presenza quasi scontata della nostra vita, ma che acquisisce un’importanza notevole se vista con gli occhi del cuore. Il colore del caffè, in definitiva, è la “semplice” rappresentazione dei tanti colori della nostra anima”.
http://www.abruzzocultura.it/abruzzo/007900_arturo-bernava-il-colore-del-caffe/
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